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Storia della pasticceria siciliana






VENERDI SANTO nuovaBreve storia dei dolci siciliani.
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a dimensione storica e culturale della nostra società è così grande che esistono infiniti modi per intraprenderne un approfondimento di ricerca che possa fornire una maggiore comprensione sulla sua genesi e sulla sua misteriosa e complessa identità. La così detta Epoca Moderna nasce, infatti, da un sentimento di studio e di ricerca nuovo, capace di abbattere definitivamente le frontiere dell’universo culturale. Intellettuali e scienziati si sono liberati – finalmente! – in questo periodo dai vecchi schemi e dalla sudditanza di date, eventi e personaggi famosi e hanno rivolto con coraggio e fiducia la propria attenzione anche ai piccoli fatti, agli usi e ai costumi della vita quotidiana, scrivendo così le prime opere di sociologia, antropologia ed etnologia.

Anche la cucina - l’arte di preparare il cibo e di mangiarlo - diventa allora, in questo nuovo contesto: soggetto e prodotto culturale a tutti gli effetti. Il dolce, addirittura, si ritaglia un ambito esclusivo, ricco di significati simbolici, perché sganciato sin dall’origine dalla sua funzione naturale di alimento e legato invece all’universo più complesso e più profondo della natura umana.

E’straordinario come, partendo da un qualsiasi dolce - anche da quelli più semplici e più “poveri” - si possano fare interessantissimi e preziosi collegamenti con la storia, la mitologia, la religione e persino con l’astronomia. In Sicilia, il legame tra la preparazione dei dolci e la funzione rituale è molto profondo:la Sicilia,infatti, è un’isola “mitica” con una storia ricca di embricate radici che hanno prodotto epoche molto particolari e identità originalissime. L’abbondanza di tradizioni e di celebrazioni di riti hanno svolto fino ai nostri giorni – e continuano a svolgerlo - il ruolo fondamentale di cementare e tenere unito un popolo caratterizzato dalla ingombrante compresenza di numerose anime. I Sicani, i Siculi,i Fenici, i Greci, i Romani, i Bizantini, gli Arabi, i Normanni, i Germanici, i Francesi, gli Spagnoli: tutti hanno lasciato “qualcosa” nello spirito più profondo del popolo siciliano. Questa straordinaria isola - la più grande del Mediterraneo - confine nevralgico tra l’Occidente e l’Oriente, anello di congiunzione tra il mondo latino e quello greco è stata sempre campo di battaglia ed ha subito l’occupazione di tutte le grandi potenze che volevano estendere il proprio dominio attraverso il Mediterraneo. La Sicilia è appartenuta a tantissime civiltà, eppure non ha mai, propriamente, fatto parte di nessuna! Sembra quasi che l’identità siciliana, consapevole di essere così esposta e facile preda di chiunque, abbia - con un magico e misterioso istinto di sopravvivenza - imparato da sempre a metabolizzare e interiorizzare le culture con le quali nei secoli è entrata in contatto, esprimendole poi in una forma e con uno spirito tutto proprio. Antonino Buttitta - antropologo e profondo conoscitore “delle cose di Sicilia” - a tal proposito scrive: «Uno dei caratteri della vita intellettuale e in genere della cultura siciliana su cui non si è abbastanza riflettuto, è la eterogeneità. Mentre in altri paesi i movimenti culturali sono regolati dalle normali scansioni di nascita, diffusione e declino, e si susseguono rinnovando in modo omogeneo le singole attività, nell’Isola tutto viene a sedimentarsi. Il nuovo non scaccia il vecchio, tradizione e innovazione convivono, passato e presente procedono di pari passo, le idee più diverse vengono assorbite con esiti in qualche caso di felice sincretismo, ma più spesso discrasici e contraddittori. Se da un lato la cultura isolana si mantiene al passo con i tempi, dall’altro sotto un adeguamento di superficie al cambiamento, si avverte la persistenza di forme e sostanze ideologiche che sembrano appartenere a una dimensione storica senza tempo dove tutto deve mutare perché nulla cambi, non diversamente da quanto è dato registrare, così come è stato acutamente notato, anche in campo politico». *1 Dalla prefazione di Antonino Buttitta a Profumi di Sicilia – Il libro della cucina siciliana di Giuseppe Coria, Vito Cavalloto Editore, Palermo 1981.

Questo particolare carattere della sicilianità - reso famoso da Tomasi di Lampedusa nelspegnitorcia a villa dei mostri

 suo Gattopardo - si manifesta in quella specifica tendenza alla dolce malinconia, che viene fuori quando il siciliano guarda, con la lucidità della sua esperienza e della sua storia, alla vita e al suo destino. Luigi Pirandello, Giovanni Verga, Rosso di San Secondo, Federico De Roberto, Luigi Capuana, Salvatore Quasimodo, Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo… pur nella loro diversità, hanno tutti espresso,in maniera magistrale, questo autentico sentimento esistenziale proveniente direttamente dalla loro sicilianità. Il triste e contemporaneamente gioioso ritornello di Vitti‘na crozza - la canzone simbolo della tradizione popolare siciliana - esprime in maniera straordinaria l’essenza del carattere conflittuale dei Siciliani.

Questa identità così complessa, travagliata e labirintica è stata mantenuta unita grazie all’incommensurabile forza del sentimento del sacro. La Sicilia ha potuto cambiare ogni volta tutto e rimanere sempre se stessa; ha attraversato le innumerevoli dominazioni riuscendo sempre a salvaguardare il proprio carattere, grazie alla manifestazione e alla conservazione della propria spiritualità.

E la spiritualità si alimenta con i riti. E i riti si mantengono in vita celebrandoli. E la celebrazione del rito ha bisogno di dare un senso particolare e un significato più profondo a tutto quello che si “ad-opera” nel rito: ed è allora che si ricorre al simbolo! Ed è proprio all’interno di questa dimensione che anche le pietanze - e i dolci in particolare!- contribuiscono a dare il proprio piccolo-grande aiuto al rafforzamento del rito.

L’evoluzione del sentimento del sacro ha infatti avuto un andamento più omogeneo nella storia e nella cultura siciliana rispetto alle altre manifestazioni della vita sociale.

 



Miele apiI riti originari
sono dedicati dalle prime popolazioni alla grande Dea-Madre: già allora,infatti,per l’isola l’agricoltura e la pastorizia costituivano una gran bella realtà. Considerata la nomea dei Siculi, “popolo delle api”, non è difficile ipotizzare già in questo periodo l’uso di amalgamare il frumento con il latte e il miele, dando vita a quello che potrebbe essere definito il primo dolce: la cuccìa, il dolce più antico della tradizione siciliana.

La svolta arriva poi con la mitologia greca. I cinque secoli della prestigiosa civiltà ellenica hanno lasciato una delle tracce più significative nella caleidoscopica identità siciliana. Persino nel linguaggio, troviamo una straordinaria testimonianza di questa fondamentale influenza: non solo numerosissime parole siciliane sono di chiara origine greca, ma ancora oggi addirittura, molte di esse sono pronunciate con il caratteristico suono aspirato della X della lingua di Omero: xiuri (fiore); xiumi (fiume), xiato (fiato-respiro), axxiari (trovare) …

 

I Greci portano nell’isola il mandorlo, la vite, l’ulivo… e soprattutto le nuove tecniche per lavorare la terra, rinforzate dal culto in onore di Demetra, Persefone, Adone e Dioniso.”Il famoso mito del ratto di Cora, penetrato fra le genti che abitavano le nostre fertili pianure, diventava oggetto di artistica poesia per i Greci ed i Latini; e i luoghi di Enna, Ciane e Etna salivano a grande fama nelle tradizioni e nei miti del paese. Le due dee occupavano in breve il primo posto nella religione dei Siciliani e l’importanza del loro culto si riflette nella storia dell’isola, sia al tempo dei Greci, che dei Romani”.*2 Emanuele Ciaceri – Culti e Miti nella storia dell’antica Sicilia pag 108. Edizioni Clio 2004 “Durante le Tesmoforie, feste annuali che si celebravano in Sicilia in onore delle due grandi Dee nel periodo primaverile, venivano offerte delle focacce di sesamo e miele, chiamate mylloi che raffiguravano gli organi femminili” *3 Antonino Uccello, Pani e dolci di Sicilia pag 16, Sellerio editore Palermo 1976. Miliddi si chiamano, infatti, i biscottini al miele preparati nella zona di Erice durante i banchetti matrimoniali. Il culto in onore di Adone è riscontrabile ancora oggi ad Alcara Li Fusi - un piccolo paese arroccato sulle colline del messinese – quando il 24 giugno si festeggia S.Giovanni insieme al muzzuni. Il dio della natura - tanto amato da Afrodite - viene celebrato nei quartieri di Alcara Li Fusi con altari adornati da coperte pregiate e tovaglie ricamate dove troneggia u muzzuni. Il muzzuni è
MUZZUNI 021 una brocca spezzata o una bottiglia avvolta in un foulard di seta: un vero e proprio tabernacolo ricoperto da un’abbondanza di oggetti d’oro e ornato in cima da fiori e ciuffi di frumento germogliato. Con la sua simbologia fallica, nel giorno del solstizio d’estate - quando il sole si sposa con la luna - il muzzuni propizia fin dall’antichità la crescita e la ricchezza della vegetazione. Dioniso è presente nei popolarissimi festeggiamenti in onore di San Giuseppe. Il 19 marzo, in tantissimi comuni dell’isola si innalzano gli altari dell’abbondanza alimentare: pani, dolci, primizie di stagione e naturalmente… vino a volontà. Grazie all’introduzione delle nuove colture il paesaggio dell’isola, durante la colonizzazione greca, cambia profondamente. La Sicilia diventa anche un importante centro culturale: Stesicoro di Imera, Empedocle di Agrigento, Archimede di Siracusa, Gorgia di Lentini saranno conosciuti e apprezzati in tutto il mondo civile. Ed è proprio in questo periodo che troviamo le prime testimonianze certe sui traguardi raggiunti in Sicilia nell’arte della gastronomia. Labduco inaugura una scuola dove si insegnano i principali segreti dell’arte culinaria; Archestrato di Gela scrive il primo manuale gastronomico intitolato Hedypàtheia – Vivere nel piacere - di cui Anteo ci ha tramandato ben 62 frammenti nel libro DeipnosofistaìSapienti a banchetto -; il grande Platone nei suoi avventurosi viaggi a Siracusa, nel tentativo di realizzare la città ideale, non può fare a meno di scrivere sulle particolari abitudini alimentari dei Siciliani e Alcifrone ci parla addirittura di “una torta che prende il nome da Gelone il Siceliota, ornata con prelibatezze di pistacchio, datteri e noci, alla vista di cui il mio cuore si dilettava e la bocca aveva l’acquolina…”.

*4 Alcifrone, Lettere di Parassite, n.39, in The letters Alcifrone,Aelian and Philostratus, Cambridge Mass, 1949,pp.241-243

Sono di questo periodo i dolci a base di mandorle abbrustolite, i pasticcini al miele, la cuccìa (dal greco ant. tà kokkìa “i grani”), le cudduredde (dal greco ant. kollùra “ciambella”). E se ancora oggi vige la tradizione di offrire cinque confetti durante le celebrazioni nuziali, il significato è direttamente legato alla simbologia pitagorica molto diffusa in Sicilia, dove il numero cinque rappresentava “il matrimonio”: essendo l’unione del primo numero pari, il due -la femmina- e del primo numero dispari il tre -il maschio-; il numero uno simboleggiava Dio, che era quindi fuori dalla classificazione.

 

Durante la dominazione romana, la Sicilia non venne valorizzata. I nuovi conquistatori trattarono l’isola con scarso rispetto, limitandosi a sfruttarla e ad obbligare la popolazione a seminare e a raccogliere grano per Roma. Ma in questi lunghissimi secoli la celebrazione soprattutto di alcuni riti costituiva un appuntamento prezioso per tutelare la propria identità e per sfogare la rabbia contro l’oppressione del dominatore. Il Carnevale e la Pasqua erano quindi vissuti con un particolare coinvolgimento emotivo. Il cannolo e la cassata - i dolci per antonomasia della pasticceria siciliana - sembra che siano legati a
CANNOLI - orizzontalequesti due riti nella lontanissima epoca romana. Cannolo, infatti, è parola di origine latina – canneolus - e sta ad indicare l’internodio della canna, l’artigianalissimo strumento utilizzato per arrotolare l’impasto dalla cui frittura si ottiene poi la caratteristica scorza che viene poi riempita con la crema di ricotta. * 5Pino Correnti, nel suo Libro d’oro della cucina e dei vini della Sicilia, riporta una citazione di Cicerone dedicata al cannolo, tratta dal Vocabolario Siciliano del 1752 a cura del De Bono: «tubus farinarius, dulcissimo edulio ex lacte factus».Dietro accurati approfondimenti, posso affermare che nelle opere del grande autore latino non v’è assolutamente traccia di questa citazione, ciononostante… essa è indicativa del fatto che sia stata diffusa per secoli una descrizione del cannolo in lingua latina.

Anche la cassata che molti studiosi riconducono erroneamente all’influenza araba è parola latina: caseatus (incaciato, ripieno di formaggio) da caseus che vuol dire
Cassata di Antonio Cappadonia 2 formaggio, da qui anche le parole caseificio e caseario. Gaetano Basile,scrittore-giornalista e grande conoscitore delle tradizioni culinarie siciliane, in un’intervista a Chiara Di Salvo per il quotidiano La Sicilia afferma che: «La cassata un tempo si mangiava solo a Pasqua per via di un culto solare antichissimo. Tutte le pietanze con forma rotonda richiamavano il disco del sole, tra gli dei colui che feconda la terra: il disco solare parla di fertilità, di nascita e rinascita e quindi di Resurrezione». Infatti, durante l’età romana troviamo in Sicilia anche qualche contaminazione della religione egizia profondamente legata, come si sa, al culto del sole. Abbiamo, per esempio, testimonianze certe della diffusione del culto di Iside soprattutto nella zona sud orientale dell’isola. Un altro dolce che per gli ingredienti utilizzati è collegabile alla cassata era la placenta. Catone nel De agri cultura descrive, infatti, una focaccia a base di farina,formaggio e miele cotta a fuoco lento. La placenta è nominata anche in un famoso verso di Marziale in cui si fa anche riferimento al timo dei monti Iblei che sovrastano Siracusa “… misi Hyblaeisis madidas thymis placentas - … ho inviato focacce fragranti di timo ibleo”. Catone e Apicio riportano notizie riguardanti la confezione del mustaceus, il mostacciolo a base di farina di segala, anice, cimino,formaggio e scorza di ramo di alloro. In Sicilia, un dolce a base di farina, mosto e miele prende appunto il nome di mustazzolu.

Un evento storico da segnalare in questo periodo che contribuirà ad arricchire l’eterogeneità dell’identità dei Siciliani è l’arrivo delle prime comunità ebraiche. Gli Ebrei troveranno nella Sicilia un luogo ideale dove risiedere e la loro presenza aumenterà sempre di più nei secoli successivi fino a rappresentare una componente significativa della società e dell’economia siciliana. Il torrone, per esempio, pare che sia proprio una specialità degli Ebrei-Siciliani dell’epoca romana,un dolce kasher che avrà una fortuna immensa in tutta quanta la popolazione e in seguito in tante altre regioni d’Italia.

Ma il periodo cruciale che caratterizzerà definitivamente il sentimento religioso dei Siciliani fu la precocissima e forte diffusione del cristianesimo; sarà direttamente l’apostolo Paolo a curarne l’organizzazione. E’ in questo passaggio fondamentale dalla
xPalagonia 29 ottobre 2006 217 religione mitologica a quella cristiana che vediamo sperimentare al meglio il principio tutto siciliano del personalizzare il nuovo in maniera tale che il vecchio continui a sopravvivere. Benedetto Clausi e Vincenza Milazzo nel loro saggio: Tra Oriente e Occidente – Gli inizi del cristianesimo in Sicilia parlando delle passiones di Agata e Lucia scrivono: «E’ significativo, in proposito, che le nostre due eroine, patrone delle loro rispettive città, siano donne, così come la patrona di Palermo, la normanna santa Rosalia, che ha preso il posto della più antica Cristina (particolare devozione i palermitani avevano anche per altre due sante, Ninfa e Oliva), e come le tante madonne protettrici di città e paesi isolani. La santità femminile ha insomma in Sicilia uno spazio preponderante rispetto a quello maschile. Le ragioni, storiche, antropologiche e psicologiche, di tale prevalenza sono complesse, ma un ruolo giocano sicuramente i culti precristiani tributati nell’isola a entità femminili e nei quali si mescolano elementi indigeni, greci, romani e orientali: basterebbe ricordare la Venere-Astarte Ericina e le altre Veneri locali, l’egiziana Iside e soprattutto la greca Demetra (dea delle messi, a cui sono attribuite la fondazione e il mantenimento dei ritmi agrari della cerealicoltura) con la figlia Persefone-Kore, alle
 quali ultime addirittura la Sicilia era sacra. La familiarità con queste e altre figure femminili costituisce di sicuro uno dei fattori che favorirono, nel mondo cristiano, la particolare venerazione per sante donne, anche se il nuovo orizzonte teologico è rigorosamente monoteistico… Affinità sono state rilevate, ad esempio, tra l’antico corteo sacro in onore di Iside, i cui fedeli indossavano un camice bianco, e la processione che si svolge a Catania in onore di sant’Agata, i cui devoti portano il tradizionale sacco bianco. Tutti conoscono, poi, la cuccìa, il piatto a base di grano che viene confezionato il 13 dicembre, giorno della festa di santa Lucia. La sua origine è legata ad un intervento della santa in favore della città di Siracusa, in occasione di una carestia, ma la presenza del grano ci riporta altresì a Demetra, l’antica divinità delle messi».*6 Benedetto Clausi e Vincenza Milazzo, Tra Oriente e Occidente – Gli inizi del cristianesimo in Sicilia, in Storia della Sicilia – Dalle origini al seicento a cura di Francesco Benigno e Giuseppe Giarrizzo, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari 2003.

 

Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente e la breve parentesi delle invasioni barbariche, la Sicilia, intorno alla metà del 500, passa nelle mani dei Bizantini tornando ad essere una provincia dell’Impero. I tre secoli della presenza bizantina nell’isola segnano profondamente il carattere e la mentalità dei Siciliani, sempre più portati a personalizzare un’identità sospesa fra Occidente e Oriente. La Sicilia era così importante e la sua posizione geografica così strategica che Costante II aveva addirittura trasferito la capitale dell’Impero a Siracusa.In questo periodo l’isola è protagonista di un grande fermento culturale e religioso. Tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo la Sicilia diede quattro papi. Gli interessi dei pontefici erano molto forti, perché molto consistente era la proprietà ecclesiastica nell’isola. Gregorio Magno (a quanto pare di origine siciliana, la madre, sarebbe nata a Vizzini) nutre un sentimento particolare nell’organizzare la vita religiosa dei Siciliani: favorisce la fondazione di numerosi monasteri, interviene direttamente sulla nomina di vescovi e abati e si oppone molto spesso agli abusi amministrativi di Bisanzio. In questo periodo la cucina diventa più ricercata e si impreziosisce di nuovi aromi, la preparazione dei dolci legata agli antichi riti pagani si converte sempre più nel rinforzare i simboli della nuova religione cristiana.

 

La dominazione araba in Sicilia è stata eccessivamente mitizzata. La conquista dell’isola da parte dei musulmani iniziata nell’827 è stata particolarmente cruenta, lunga e travagliata. La profonda formazione greco-romana e il forte sentimento cristiano dei Siciliani non si conciliò affatto con la cultura e la religione dei nuovi conquistatori. I Siciliani avevano ormai raggiunto quel punto di non ritorno nella costituzione della propria identità, che rendeva fattivamente impossibile l’integrazione con il particolare “monoteismo maschilista” della religione di Allah. Per secoli e secoli il culto della Dea Madre aveva nutrito l’immaginario più profondo della spiritualità siciliana; per secoli e secoli l’abitante di quest’isola aveva vissuto con un forte sentimento panteista e politeista. Questo ricco corredo sentimentale e spirituale fu felicemente riversato nella nuova e coinvolgente religione cristiana: la venerazione della Madonna, delle sante e dei santi, il mistero della trinità garantirono una confortante continuità con l’originario sentimento di fede. La conversione alla religione musulmana sarebbe stata invece una “schizofrenica catastrofe spirituale” che avrebbe fatto crollare completamente persino il principio fondamentale del “tutto deve mutare perché nulla cambi”. Con la religione musulmana invece, sarebbe mutato e cambiato tutto… veramente! E per l’identità siciliana sarebbe stata la fine. E’ arrivato il momento di ridimensionare la così detta influenza araba nei confronti della cultura siciliana, compresa naturalmente quella gastronomica. Per non parlare del diffusissimo luogo comune che vuole far derivare quasi tutta la pasticceria siciliana dai due secoli e mezzo dell’occupazione araba. Purtroppo, anche i principali media si sono sempre “riempiti la bocca” con leggende e false etimologie per legare forzatamente la maggior parte dei dolci siciliani alla tradizione araba. Ma se ci affidiamo – per un momento - alla storia e all’antropologia questa invenzione della pasticceria siciliana di derivazione araba si scioglie come granita al sole. Cibi legati ai rituali religiosi – come la nostra tradizione dolciaria - non potevano assolutamente essere accettati da un popolo con un credo antagonista che per tutta quanta la dominazione il siciliano ha sentito ostile. E poi bisogna dire che gli Arabi che arrivarono in Sicilia non erano quelli di Bagdad o di Damasco, ma i Berberi dell’odierna Tunisia con un livello di civilizzazione nettamente inferiore rispetto al popolo siciliano. Quello che avvenne in Sicilia con la dominazione araba può essere paragonato alla Grecia conquistata dai Romani: Graecia capta ferum victorem coepit. La celebre espressione di Orazio può essere benissimo applicata anche nel nostro caso: la Sicilia vinta militarmente dagli Arabi, conquistò culturalmente i suoi dominatori. I vincitori musulmani furono “sicilianizzati” amplificando ancor di più il carattere interculturale che caratterizzava da sempre l’isola. Anche per quanto riguarda la mitica agricoltura islamica in Sicilia bisogna fare delle opportune precisazioni.”Nella piana di Catania, sulle falde del Monte Etna, nelle città indipendenti del Val Demone non fu praticata agricoltura araba. … Non vorremmo dire cosa sbagliata asserendo che gli Arabo-Berberi, prima dello sbarco in Sicilia, non fossero provetti agricoltori… Potremmo anche aggiungere che per varie tribù berbere dell’interno magrebino l’approdo in Sicilia rappresentò il passaggio dal nomadismo desertico allo stabile insediamento abitativo nell’agricoltura. … I conquistatori [gli Arabi] come divennero cittadini di città che non avevano l’eguale nel loro paese natìo, così divennero agricoltori di una agricoltura che aveva alle sue spalle una storia che non era paragonabile alla storia agricola del Magreb … Anche le tecniche idrauliche non erano brevetti arabi o berberi portati in Sicilia dalla rivoluzione islamica, ma vecchie invenzioni applicate dalla ingegneria romana nella irrigazione dei campi. Come è noto, i Romani furono veramente insuperabili nelle applicazioni idrauliche, basti pensare agli acquedotti per rifornire le città del prezioso alimento…”.*7 Francesco Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri, pp.263-265, Sellerio editore, Palermo 2003.

Per quanto riguarda l’introduzione di nuove piante come il cotone,la canapa, la canna da zucchero, il gelso,nonché vari ortaggi come cipolle e meloni, bisogna “sempre tenere presente che l’agricoltura musulmana di Sicilia era circoscritta nell’area della Sicilia occidentale ed era riserva privilegiata della popolazione dominante dalla quale era esclusa la popolazione dominata, ossia tutti quanti i Cristiani soggetti alla dhimmah. La sua dimensione economica e sociale fu quindi necessariamente assai limitata…” *8 Francesco Renda op.cit, pag.265.

E’ doveroso quindi osservare che per poter vedere la prima reale presenza dello zucchero nell’economia e nella gastronomia siciliana bisognerà aspettare Federico II. E’ infatti durante il suo regno che si cominciano ad incrementare le piantagioni di canna nell’isola e ad installare i primi trappeti per l’estrazione dello zucchero.”Meno sicura appare l’introduzione dell’arancio e del limone da parte degli Arabi, sia perché l’esistenza degli agrumi nel Mediterraneo occidentale è documentata sin dall’epoca romana e sia perché la loro diffusione si concentrò prevalentemente nella Sicilia orientale (Messina, Catania, Siracusa) cioè nel versante meno islamizzato e colonizzato dell’isola”. *9 Giuseppe Barone, Sicilia politica fra tradizione e modernità (IX-XX secolo), Dispensa per il Corso di laurea specialistica in Storia Contemporanea,pag. 7 - Università Degli Studi Di Catania, Facoltà Di Scienze Politiche, Anno Accademico 2007-2008.

Così come per la lingua, l’influenza maggiore di certi vocaboli arabi è stata quasi esclusivamente nel campo della toponomastica perché in effetti testimonia la ridisegnazione politica del loro controllo sul territorio, così per la cultura l’influenza principale ha coinvolto solo la dimensione più esteriore. Nella gastronomia le pietanze arabe-sicule sono quelle con ingredienti di sicura importazione araba e che trovano ancora oggi diffusione pure nei loro paesi. E’ il caso del cuscus e di un certo modo di utilizzare le essenze come il gelsomino e la cannella. Interessante invece è comprendere il motivo della diffusione di questo luogo comune che ha volutamente esagerato l’influenza del carattere arabo nella cultura e nell’identità siciliana. Alcuni studiosi, come F. Leni di Spadafora e N. Ponte Palmeri, ritengono che vi siano stati motivi politici, vecchi e nuovi. Vecchi, in quanto il primo separatismo siciliano, quello dell’inizio dell’Ottocento, volendo dare alla Sicilia una ragione etnografica e storica del desiderio di distinguersi dagli altri popoli dell’Italia e di non seguirne la storia, cercò di montare una specificità razziale araba della Sicilia. Nuovi, perché a una certa cultura italiana di stampo nordista ha fatto piacere considerare i Siciliani come “Africani” per accentuare la propria differenza. Francesco Leni di Spadafora nella sua Storia dei Siciliani su questo fuorviante luogo comune scrive in maniera perentoria: «Gli Arabi al tempo della loro dominazione non lasciarono quasi traccia nell’Isola, in quanto tutti i grandi monumenti della cosiddetta arte arabo-normanna sono di epoca posteriore, cioè del tempo del regno cristiano di Sicilia, e sono di struttura prevalentemente gotica, cioè cristiana. Ed anche se i re normanni in tempi più tardi chiamarono qualche artista arabo per certe rifiniture, le prevalenti decorazioni dei templi siciliani sono di tipo bizantino.

La Sicilia è un paese dove non esiste un arco a ferro di cavallo, tipico dell’architettura araba. Anche le famose cupolette rosse che si vedono in qualche chiesa sono più che altro opera di restauratori del Settecento, mentre quelle originali somigliavano ai chiodati elmi dei prussiani e si vedono anche in Paesi del Mediterraneo che non subirono la presenza degli Arabi». *10Francesco Leni di Spadafora, Storia dei Siciliani, TEV, Caltanissetta 1991.

Per concludere questa ampia trattazione volta a contrastare il luogo comune che ha amplificato l’influenza della cultura araba in Sicilia, mettiamo in luce il modo con cui ebbe termine la sua dominazione: fu una vera e propria guerra di liberazione, opera e merito della stessa popolazione siciliana. I Normanni erano poche centinaia, un numero troppo esiguo di guerrieri e senza la partecipazione dei “picciotti” di quel tempo non avrebbero conquistato neanche una città!

 

L’arrivo e la presenza dei Normanni e successivamente degli Svevi in Sicilia rappresentò un evento di eccezionale importanza: si riprese il filo interrotto della storia e dell’identità che si modella attorno al ruolo importante dell’istituzione della fede. Il re Ruggero II, consacrato nella cerimonia dell’unzione e dell’incoronamento, mostra fortemente una somiglianza con Dio stesso: nel mosaico della chiesa palermitana della Martorana, viene direttamente incoronato da Cristo e rappresentato con dei tratti del viso a lui molto simili. Il regno, che ha sede a Palermo nel Palazzo dei Normanni, ha il forte obiettivo di far risorgere il ricco e variegato patrimonio storico di quella terra e di quelle genti proponendo una sintesi del tutto originale da applicare in tutti i campi, soprattutto in quello urbanistico. In questo periodo cambia anche la struttura sociale che diventa feudale. Interessante per comprendere la svolta intrapresa dalla Sicilia ai tempi di Federico II è il giudizio storico proposto da Ferdinando Maurici, il quale sgombra finalmente il campo dalle “leggende storiografiche” e ci presenta un quadro diverso dalle brevi e mitizzate pagine manualistiche: «Nessuna splendida corte a Palermo; nessuna scuola poetica siciliana alloggiata fra le mura del Palazzo Reale; nessuna programmatica politica di tolleranza o ‘amicizia’ nei confronti dei musulmani. Per la Sicilia l’età di Federico II è un’epoca di grandi e definitive trasformazioni. La lotta fra il sovrano e i ribelli musulmani, con la totale eliminazione di questi ultimi, completa l’occidentalizzazione della Sicilia già avviata dai Normanni. La Sicilia Cattolica, neolatina, europea, in una parola la Sicilia attuale nasce con la conquista normanna, si rafforza con Federico II, afferma con decisione la sua identità nazionale nell’epoca del Vespro».

*11 Ferdinando Maurici, La Sicilia di Federico II, in Storia della Sicilia – Dalle origini al seicento, op. cit.

 

La dominazione spagnola in Sicilia fu molto lunga: più di quattro secoli di rassegnata e “pacifica” convivenza. La componente spagnola fu l’ultimo apporto di sangue alla struttura demografica del popolo siciliano e l’ultima forte influenza all’interno di quella fondamentale e misteriosa dimensione della percezione e della comunicazione del sentimento del sacro. L’attuale cattolicesimo dei siciliani è decisamente spagnoleggiante! E’sufficiente pensare ai riti che si svolgono in tutta la Sicilia durante la Settimana Santa per riscontrarne l’evidente affinità. E poi gli Spagnoli erano più vicini per lingua e per il carattere ai Siciliani, rispetto ai Tedeschi e ai Francesi. In questo periodo nell’isola si costruiscono chiese, conventi e palazzi meravigliosi e l’arte barocca arriva persino nei centri più piccoli. La tradizione culinaria e soprattutto dolciaria giunge alla sua massima espressione ed evoluzione. Dal nuovo mondo gli Spagnoli portano quegli ingredienti (pomodoro, patate, melanzane…) che diventeranno la base della cucina mediterranea. In pasticceria, il cioccolato e la diffusione dello zucchero andranno a completare e a migliorare ricette collaudate da secoli. Nei conventi, soprattutto quelli femminili, si diffonde sempre più l’arte della dolceria. Le religiose infatti, avevano scoperto che questo importante e proficuo espediente lavorativo era molto utile per finanziare le loro strutture e la propria missione cristiana dedicata soprattutto ai numerosi orfani che ricevevano in affidamento. Alla fine del 1700, il ceto dei nobili con i propri rituali e i frequenti banchetti favorirà una cultura del mangiare bene e ricercato sotto la preziosa guida dei capocuochi francesi al loro servizio. Questi grandi chef - chiamati monsù, traduzione dialettale della parola francese monsieur – introdussero nella già ricca cucina siciliana uno stile più raffinato e soprattutto ricette nuove provenienti sia dalla Francia che dalla vicina Napoli.

Tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, la pasticceria siciliana va incontro ad una vera e propria rivoluzione: arrivano, infatti, dalla Svizzera i signori Caflish, Caviezel e Greuter e con loro irrompono nella tradizione dolciaria siciliana il burro, la panna e nuove tecniche di lavorazione che saranno, come al solito, prima apprese, poi interiorizzate e alla fine straordinariamente “personalizzate” dai maestri pasticcieri siciliani.

 

dolcezzesiciliaTratto dal Libro “Dolcezze di Sicilia – Storia e tradizioni della pasticceria siciliana”

di Salvatore Farina – Edizioni Lussografica 2009